IANUS PRAVO – POESIE TRATTE DA “MUDRÀ” – AM MAROTTA EDIZIONI –

 

 

“Il sonno, e non il sogno, come libertà dalla mente, e la vigilia, la stessa opposta forza inerte: Afrodite anterotica, una Pietà artica, metrica, sulla nascita.”

 

I.

Diagóras abbattuto in agorá
volto del diavolo Buddha sorride.

La carne è da riempire, e cede, e nulla
è volere, di una muta di rozze
rose il nudo spazio respiro.

Ciò che nutre mantiene vivi i denti
e la Pietà una pura rivalsa.

Quos ego
risciama vibrazione all’Icona
nei kare sansui, né tempo né spazio

al tempo a mano sugli occhi, allo spazio
arido che porge sete al chinarsi

del volto sul flusso di calce e volo
verde.

 

 
II.

Dal magro seno è ferma la ferita
le aride dita ricoprono il ventre
di una breve foce

i morti reggono lo stallo,
ne fanno il proprio diurno pane.

Radican labbra e di asincrona voce
non ha un volto e un nerbo a leccar
gocce di pioggia che tuo spazio.

Le mani a farsi bianche di putredine
nel sorriso, le labbra a farsi bianche
a smorzare l’apertura e l’ingiuria

le pazienti labbra in un bacio d’ozio.

 

 
III.

Il ventre al volto
odore d’immagine rossa.

Copre la voce
copre l’orina il vaso.

Non sì, linguaggio dell’orina
sul linguaggio del vaso.

Due parole una fiamma sulla bocca
ch’êng ch’êng parlar nella luce ridar

cenere si cum cors envers il koto
possesso della luna il bianco è.

 

 
IV.

Oltre la regola che vuole il matmata
da fumo di sterco, i piedi invertiti:

lo ieri del tuo ventre mio salario,
il prezzo del tuo Dio lo esborso adesso

senza che Dio Dio, due nomi al luogo
posseggano suono, posseggano
il metrico ovale

che unisce le labbra
a un Wondjina, a un Bellini

il vuoto della forma forma il nulla
il ventre senza luogo del silenzio.

 

 
V.

Che dolcezza o severità? Che farsa?
Latte di foia atroce, vera firma
bianca se in un molle tripudio d’inguine
le braccia allarga in una croce mite.

Agli amanti lo stupore stupro,
il potere proprio altrui potere:
il due deídô.

Due graffiti sovrapposti a un’icona
di Pietà, asimmetria e dissonanza
dove un sorriso si frrma e riaccoglie
rilascia il modo di non essere stato
forma non forma di attenzione al soku
o sive.

Mutano gli occhi argento,
nel pugno cima dell’argento,
nell’aria bianca non bianca
transitorietà, pura, dal tremore.

 

 
XV.

Se il volto inclinato
rettile al silenzio

in cui si apre cerimonia il corpo
al vuoto dell’origine

poi torce l’asse all’alterità
che devasta lo spazio di luce

tra questo nuovo mutismo,
lubricità del silenzio,
e lo sguardo del non Dio

della cui audacia insanguinati
orina e il dolor senza pena,
il pane dei corpi alla fame

che limita in fiamme,
maschera,
il nulla.

 

XX.

Nell’incavo di mani i volti
pensano e corrompono il freddo

e nudità dissezionata
nel gioco del caso che deve

un Dio all’inferno se un numero
presceglie il ventre e dello scisma

nella luce dei dadi
la pietà non è computo

la ipostasi del dolore sul tantra
di corpo al corpo di Lingua e di genesi

il gesto limbico che apprende
infamia dalla nudità.

 

XXI.

Dalla immagina già non si unisce
al senso il limite, la spoliazione.

Nello spazio pubblicato del ventre
tuo luogo di coltelli,

solo osserva sé stesso
il carnem faciens.

 

XXIV.

Ricordo il corpo morto e il corpo amato.
Prendono in sé le medesime pose
spezzate a un’arresa oscenità, grigi
e sapienti. La resa è scienza, iato,
tatto ulcerato e una fonda boccata
di senso alla perdita dell’eretta
posizione.

È abiura da nudità,
l’aperta nudità un occhio vivo
deforme dormizione in duo di star
exitus in reddito non essendo
che grava d’inerzia se non al ricordo
Pizia.

 

XXVII.

Cadavere attento, lo sfarsi
sguardo e carminio per l’inverno

in luce alla spoglia mentita.
Sul corpo scomposto è la vergine

a spendere un soldo di scherno
per tanta morte mal riuscita:

l’aperta nudità è il bianco
luttuoso amare, è il dormire

senza sonno per l’altro volto.
Nulla di meno, e niente è tolto

dal corpo pieno a non coprire
quanto di osceno ne vien colto.

 

XXXVI.

Il vuoto di Dio che è assenza del grido.
Di genesi e fango il luogo era il grido
se dopo il tempo del nulla del grido
ora gli è spazio gremito, annientato
lo sguardo: come un battesimo inietta
lacrime nella fronte dell’uomo e
v’innesta innocenza, l’avidità
dei due corpi pietosi a unirsi muti.

Attraverso il lume aperto tra i ventri
divisi, commisura l’ozio a Dio,
decifra oro nell’ordito dei semi,
un sapore di voce in secrezione
O un pugno dischiuso, scialato: il tempo
a sangue gradui potere alla luce.

 

XXXVII.

La voce che immagine al mondo, il grido
è l’accoglienza al mondo, il ventre al seme.

I corpi di Schiele l’ascolto degli
sguardi nel fondo dell’utero, voci.

Vergine plurale in vocalità
e luce: la resistenza del nulla

e del tutto alla genesi. Nei corpi
la stasi solo ha limiti amorosi

nella linea di grido, la torsione
che sgrana e ricompone in brace, lento.

Il pane del desiderio: è il cibo
rituale divorato come un’ostia

nell’impreziosirsi a feccia del corpo,
a membratura, fiamma, brevità.

 

XLI.

La mudrà è azione, il bacio lo sguardo,
il cenno lo spazio a cedere, a retro-
cedere nell’origine del corpo.

L’azione privata di spazio il nudo
locativo dell’orgasmo. La voce:
la clausura della mudrà nel corpo
a zero se nel seme dello zero.

Nessun tessuto mai sopra le mani,
nessuna materia a ostruire materia
del ventre da latte a ametista a unire
la dhyana che dà postura al vedere:

l’abhaya slabbra al grido l’estensione
e, rossa, la varada placa inerzia
alla linea dei volti che ammansiti
respirano nel vigore di un limbo.

 

Poesie tratte da “Mudrà”, AM Edizioni Marotta, 2004).

 

NOTIZIE BIOGRAFICHE

Ianus Pravo è nato nel Veneto, ma vive a Barcellona, in Catalogna, dalla fine degli anni ottanta. Ha vissuto anche in Argentina, Sudafrica e Israele. Ha pubblicato i libri di poesia “Mudrà” (AM Edizioni Marotta, 2004), “Nostra Signora d’Auschwitz” (Azimut, 2007), e, insieme a Leopoldo María Panero, “Senz’arma che dia carne all’imperium” (Società Editrice Fiorentina, 2011). Ha tradotto dallo spagnolo “Narciso nell’accordo estremo dei flauti” (Azimut 2005) e “Dal manicomio di Mondragón” (Azimut 2007), di Leopoldo María Panero. Sempre di L. M. Panero, ha curato e tradotto, insieme a Sebastiano Gatto, “Peter Pan non è che un nome”, poesie scelte 1970-2009 (Il Ponte del Sale, 2011). Ha curato la traduzione in castigliano dei “Canti Orfici” di Dino Campana (Ediciones Caracol Nocturno, 1999). Fa parte della redazione di “NiedernGasse”.

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