(da “Chissà” edizioni D’if Napoli 2004)
5.
andrà a finire. e se non ora,
o quando, sarà come se fosse,
dentro un pensiero, trito,
che si sgranocchia la sua noce.
l’improvviso schiarirsi,
o lo snodarsi, o altro che già c’è.
finirà che se ne andranno tutti,
i giunchi sferzati dalla bora,
le folaghe smarrite, i rantoli,
quelli dei ratti che fanno tana tra i rottami,
sgranocchiano croccanti cartilagini.
andrà a finire anche così,
o anche chissà come,
anche come se fosse chissà che
7.
chissà dove, arriverà del vento,
con una pioggia fitta, le folate.
anche, per fare prima, scrosci,
fole di meraviglia, come a vigilia,
a fare impacchi, bende, beveroni.
nessuna banda a fare chiasso, o sì,
anche, facendo prima, due tamburi,
due chiostre di denti che scongiurano,
quattro mani che fanno giochi d’ombra,
così, per divertire. chissà dove,
nitrire, frinire, facendo in fretta,
nutrire un’altra fine che si stanca.
fa, chissà dove, molto caldo.
fanno dei fuochi, altrove, per scaldarsi.
due o tre sospiri, forse, non di più.
da Improvviso e dopo, 1997
considera che questo non è più questo
che fuori non è rimasto nulla
fuori più nulla
la strada l’asfalto la polvere
dentro la culla vecchia vuota
immagina che questo non può tornare
nemmeno come un’immagine
dentro più nulla
le ciglia le palpebre l’occhio
fuori la luce calda vuota
considera che questo non è più questo
fuori non è rimasto nulla
dentro più nulla
breve lunga breve, breve lunga breve,
lunga breve breve, breve breve breve
*
quasi più spazio. passa tempo e fa danno,
di schiudere dopo e prima,
senza rima possibile, senza fine,
la goccia diventa un lago, il bosco si disbosca.
(se ci saremo ancora, dopo questo tempo,
saremo prima o dopo, o mentre, appena poco,
il tempo, appena, che ricrescano le unghie,
e i capelli, che la pelle abbia il suo sapore.)
* * *
(di una vita non rimane quasi niente
e quello che rimane, spesso, non è vero)
(prendi a misura, adesso, com’è il rumore,
fuori, della notte)
(di più falso non c’è nulla
che il voler dire il vero)
(è vero questo approssimarsi.
è vero che a qualcosa, sempre,
noi ci approssimiamo
– anzi, ci avviciniamo,
che suona meglio,
ed è meglio di niente)
* * *
fa paura la lingua quando fa
tutti quegli schiocchi o si attorce
(si sloga come per sé, sola, e invece
cosparge di richiami, di vecchie ossa gialle,
giovani vagine, gengive gonfie d’alcool)
la mente – come la chiamano –
teme di assordarsi, che la sfondi
un timpano percosso così forte –
“morte, oh tu che poni mente a noi
dacché noi siamo” –
(e via! anche un fiato di vaniglia,
lo scroto rattrappito e quello enfiato,
le mammelle delle maestrine,
delle cugine, delle nonnine stanche) –
tutto si fa così, poi, non è vero?
a scappa e fuggi, a perdisenso,
in lembi di tempo rugginosi,
soprattutto, infine,
dopo che molto pulsa sempre meno.
mentre la lingua
fa tutti i suoi rumori strani –
shrapnel crachat – i suoi
stordimenti, i suoi fuochi
e ghiacci
e tutto senza mai guarire,
pensa, non si guarisce mai
per Amelia Rosselli
* * *
giorno è questo. non se pulsasse vena,
fuoco nella faringe, altro.
la femmina del merlo fa schiatta,
senza posa fa che si debba crescere
(anche dalla vetrina addobbata coi laser
si vede che è così, che tutto torna),
il cucciolo del topo si sgranchisce
e sfregia, orinando,
un viluppo di haute couture
(per la sua gioia, però, soltanto:
noi, si ha ben altro a cui pensare)
questa sorda sirena,
e finalmente il suono della fine
(è già finita,
non resta che finire)
questa sera serena,
che mente fino all’ultimo sospiro
(è già spirata,
basta respirarla)
[questa selva silente,
che finalmente è solo una maceria
(che non riguarda,
se non si guarda più)]
I
avere, era questo, dopo dire e ascoltare,
quasi nulla ma quello come per sempre.
parola dice che si ridice, si rifà il verso,
che se ripeti sai, che sai ripetere.
cose viste se le ripeti annoiano,
no, fanno il crescendo che assorda, ah.
(un controtempo, a rigore, non escluderebbe
la distrazione né, aggravato, l’attonito.)
aver anche questo, dunque, era il novero,
faceva già il suo corso, fa la sua parte qui.
(un tacco schiodato, un pane scotto, una siringa,
un prima, un dopo, un tutto che si tiene.)
II
altro, e modo di comprenderlo, a furia.
cosa che una ne esclude, una ne sposta,
verso dove, un altro passato, andato altrove.
fa come se appena fosse, e fosse poi, per poi.
insieme moto e luogo, ma se esclude,
una, non la sola, non solo un tempo che finisce.
(che preme a procedere, facendo e no,
dicendo, non solo le parole vecchie.)
anche, dicendo, che anni sono per sempre,
quelli trascorsi, prima, mai più
(ma se fosse stato, se ancora, se chissà).
IV
dire il vero, inoltre. pensa, pensate.
c’erano giorni come questo, ad esempio,
lasciando perdere i particolari, le parti,
fatte all’incirca, rifatte per durare di più.
(argomento è una certa fatalità, come dire
che ci saranno ore dedicate a ricordarli,
con metodo, con un fascio di artriti,
di rughe, a stringere il foglio.)
*
quarto passaggio (e dopo)
e dopo questo suono, dopo,
dopo torna
come se nulla fosse, suona,
suona ancora
(e fa le bizze, scalcia,
muove l’aria)
imparando, abbiamo imparato a trattenere
poiché tutto muta e muterà: tatà]
e dentro questo tempo, dentro,
dentro trema
come se nulla fosse, trema,
trema ancora
(e perde tempo, trema,
per tremare)
[domani moriremo, amore mio –
avremo ancora caldo e sete
e freddo e fame e tutto il resto: resta]
Giuliano Mesa
(da Quattro quaderni improvvisi 1995-1998)
UN COMMENTO DI ZUBLENA APPARSO SU LEPAROLEELECOSE
di Paolo Zublena
Con Giuliano Mesa se ne è andato forse l’ultimo dei modernisti. E – intendiamoci – non si vuol dire “l’ultimo” secondo la vulgata di un’elegia della fine che vede dappertutto epigoni esausti o svagati postmodernisti: “l’ultimo” intende designare colui che, con radicalità, ha compiuto un estremo tentativo di rappresentare l’istanza modernista in modo adeguato ai tempi.
Al centro di ogni modernismo sta un progetto di ricerca della verità, verità ontologica in primo luogo. Secondo una movenza non certo maggioritaria in questi anni, Mesa non ha dissolto il concetto di verità in una semplice accoglienza nei confronti della venuta dell’altro, ma ha preteso che la poesia dicesse quel che il linguaggio ordinario non sembra più in grado di dire: non la verità dell’oggetto, ma la verità dell’evento: una verità etica. Nell’indistinzione ontologica dei fatti, la scrittura punta a risemantizzare con cura le tessere del linguaggio per restituirle a una nuova vita relazionale, etica.
La poesia di Mesa è una poesia materialista (corporale), politica (etica) e tragica (dolorosa). L’ultimo attributo può sembrare il più scabroso: è possibile il tragico nel tempo – sancito dalle avanguardie – dell’impossibilità del tragico (al limite proponibile solo con la maschera del grottesco)? Si direbbe di sì: perché Mesa mette in forma la negatività inconsolabile e inconciliabile della vita offesa. Del resto è proprio Adorno, spesso citato – epour cause – da Mesa, a garantire (nella Dialettica negativa) il diritto di espressione artistica della sofferenza. Il rispetto della dialettica negativa per la contraddizione, per l’aconcettuale è esattamente quanto di adorniano Mesa usa per correggere il pur amato finale “mistico” del Tractatus di Wittgenstein. Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere: ma la poesia può tacerne rappresentandolo, articolandolo dialetticamente attraverso il suo peculiare silenzio scritto. Tragedia dolorosa della dialettica, tragedia del soccombente: «Tragico è soltanto quel soccombere che deriva dall’unità degli opposti, dal ribaltamento di una cosa nel suo contrario, dall’autoscissione. Ma tragico è anche soltanto il soccombere di qualcosa cui perire non è consentito, dopo il cui allontanarsi la ferita non si chiude». Così Szondi nel Saggio sul tragico, e allo stesso modo il Tiresia di Mesa: «devi tenerti in vita, Tiresia, / è il tuo discapito».
Il tragico di Mesa nasce dal tentativo di attingere una verità etica, verità che è in rapporto dialettico di negazione con il falso vero del linguaggio. L’arte, per operare una critica dialettica del negativo, deve essere qualitativamente enigmatica. Il contenuto di verità dell’opera d’arte risiede proprio nel suo carattere di enigma, nell’inesauribilità della sua presenza formale negata alla concettualità. Questa verità, che alberga solo nella concretezza del sensibile, può essere etica e politica: solo l’arte è in grado di dare voce ai vinti, ai sofferenti cui la storiografia non rende mai positivamente giustizia.
Siccome Mesa ritiene che il legame (sociale, etico, politico) tra linguaggio e verità si sia definitivamente spezzato, anche le operazioni di demistificazione del falso che smascherano il discorso ideologico dominante (la poetica delle avanguardie, per semplificare al massimo) non appaiono più praticabili. Resta la possibilità di ricominciare da capo, di rimotivare un lessico, di metterlo in comune con un interlocutore, di pronunciare una minima verità relazionale, etica: «(di una vita non rimane quasi niente / e quello che rimane, spesso, non è vero) / (prendi a misura, adesso, cos’è il rumore, / fuori, della notte) // (di più falso non c’è nulla / che il voler dire il vero) / (è vero questo approssimarsi. / è vero che a qualcosa, sempre, / noi ci approssimiamo / – anzi, ci avviciniamo, / che suona meglio, / ed è meglio di niente)». In questo testo memorabile dei Quattro quadernisi esprimono alcuni temi cardine: la frattura tra esistenza e scrittura, il venir meno del rapporto fiduciario tra parole e cose, l’intrinseca falsità di un dire puramente tetico, la verità unicamente relazionale (non per caso il soggetto qui si manifesta grammaticalmente attraverso un noi), e perciò etica, di un tentativo di approssimazione all’evento.
Se prendiamo in mano il prezioso volume uscito presso La camera verde nel 2010 – Giuliano Mesa, Poesie 1973-2008 –, possiamo ripercorrere il cammino che ha portato a un testo così perfetto.
Gli esordi del giovanissimo Mesa (Schedario, 1978) sono legati a una rappresentazione del caos vicina alla neoavanguardia (complessità lessicale, frammentazione sintattica): di quegli anni è, tra l’altro, il forte legame con Adriano Spatola. Nel successivo Poesie per un romanzo d’avventura gli sparsi brani di un conato di narrazione non destinato a cristallizzarsi in storia esprimono, in una sintassi meno frammentaria ma tendente all’esitazione, le prime strutture di ripetizione. I loro scritti (che unisce i volumi I loro scritti del 1992 eImprovviso e dopo del 1997) raccoglie la presenza di un profluvio di voci attraverso una sintassi ancora giustappositiva e slabbrata (anche se più vicina allo standard) e una testualità governata da una coerenza opaca. Si afferma il tema beckettiano della necessità-impossibilità di finire, come si legge in perfetta sintesi autonimica in questi versi: «vita, che dopo vita finisce e non fa somma, / qui non fa più che sottrarre poco al nulla, / qui si fa un’altra parlata, rifinta e rifinita, ancora, ancora». L’interminabile finire si lega a quel sottrarre poco al nulla che – metaletterariamente – designa l’operazione della scrittura, il cui fine è appunto rimotivare la lingua finta attraverso la finzione. Il ruolo di testimonianza verso il grido di sofferenza dei soccombenti trova una manifestazione esplicita in (ballata): «muschio muscolo mucosa / l’avvenimento avviene, non va a credito di ipotesi: / muore il cavallo in guerra, dilaniato / il fante e il cavaliere, / il pupo senza la carne equina, la nonnina. / numanzia kronstadt barcellona / l’avvenimento avviene e si dimentica / (queste parole qui non lo ricordano). / oswiecim mostar bhopal / hiroshima dresda, vanno bene? / nome non dice cosa / cosa non fa spessore / e tutto questo un giorno non farà più rumore). / santiago kigali baghdad / la filastrocca nota: / muschio muscolo mucosa / la materia muore, la storia non si duole». La declinazione corporale di un’attenzione alla materia pressoché lucreziana, l’inefficacia del linguaggio del discorso pubblico (i nomi propri della tragedia storica da soli non fanno memoria), l’indifferenza della storia agli eventi: tutti temi centrali della poesia di Mesa. Qui si raccolgono attorno a un istituto formale decisivo, e da questo libro in poi sempre più importante, che è l’iterazione fonica (cellule che si ripetono): allitterazione o paronomasia tendenti alla alta stringenza di una figura etimologica, anche quando essa non sia storico-linguisticamente fondata («muschio muscolo mucosa»). Nessuna autonomia del significante, appunto: in Mesa la ripetizione di suoni ha un carattere necessitato, etico, in quanto stabilisce una relazione semantica di tipo appunto etico tra le tessere lessicali interessate.
Il fenomeno si riscontra al meglio nei già citati Quattro quaderni (2000) – e il discorso potrebbe essere allargato al livello metrico-ritmico (nonché macrotestuale). La controllatissima ripetizione di temi sempre variati ha alla sua radice il tema fondamentale del «suono della fine»: beckettianamente «è già finita, / non resta che finire». Una voce desoggettivata (anche se di quando in quando ricomposta eticamente in un noi) rimusica di continuo – nella corta svolta del respiro dei versi brevi – la vanità del linguaggio, la negazione dialettica del negativo, attraverso una testualità più compatta, un lessico centrato su poche parole-chiave.
Lo stesso controllo, ma con un potente personaggio-poeta al centro (non locutore, ma allocutario: caricato dalle tragedie della storia della responsabilità di testimone), lo si trova nel successivo, mirabile Tiresia. oracoli riflessi (2008, stesura risalente al 2000-2001). Il cieco indovino resistente in vita a suo discapito è una chiara figura del poeta che deve farsi carico delle violenze sui senza parte, sui vinti (una voce, la loro voce morta gli dà del tu, lo evoca e convoca): deve attestarne, in uno sfinimento immanente, la muta presenza, il dolore senza riscatto: testimonianza che è implicitamente sfida radicale all’ideologia dominante, fedeltà a un destino di finitezza senza rassegnazione.
Il presente, l’ora (nunc) attuale dell’emergenza campeggia fin dal titolo nel più recente nun. Un ulteriore e più radicale processo di sottrazione, un beckettismo senza riserve – attraverso le consuete ripetizioni e variazioni di un tema – registra pietosamente, ma adesso anche più espressionisticamente (a livello fonico e lessicale), la ferocia impietosa della negazione calcificata nel fuoco dell’immanenza.
Al fuoco di quella immanenza per sempre incisa nel presente, le tue poesie continueranno a dirci la sofferta e sofferente pietas del non finire. Addio, Tiresia.
[Questo articolo è già apparso su «Alfabeta2»]
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