*
Le prime ore, la luce
ci sorpassa,
avviandosi, prima di noi,
alla morte.
Nel tuo guscio di pelle,
così meravigliosamente contenuta,
irridi
alla mediazione del tuo corpo.
A volte un gesto fossile,
qualcosa di infantile,
ti tradisce.
Vorresti dirti subito. Mostrarti.
Solo dopo darti.
Consegnarti non vuoi senza,
anche,
farti capire.
La ragione di un metodo
sta nella via breve al desiderio:
d’amore o delle cose semplici,
o l’arte segreta del possesso.
In questo nascondino, o nell’eccesso
che segue
non intendo forse di che parli.
(Il pensiero di chi scrive è sempre,
del resto, un po’ più lento,
per seguire l’attrito della penna).
Ma in quanto ci pensiamo
esisti,
esistiamo.
Mag. 90
II
Ma ironico,
come chi sa che il gesto è una parafrasi
un’icona del vivere,
l’uomo getta la sua lenza.
(Attento al cerchio.
Attento alla misura. Ecco.)
Disconosce la freddezza dell’acqua.
Si appartiene, solo.
Aspetta un mutamento, percettibile,
nell’onda,
mentre cambia la luce di colore.
Tramonta,
senza bisogno di nessuno.
Nell’ombra si perde il filo,
nel liquore scuro,
che si lastra.
E la preda, può darsi, perde d’importanza.
Mar. 90
*
per distrazione o qualche sentimento
di rapina muti o incapaci di capire
i segni – se domani piove, se un sabato
fuori di misura allunga le sue ossa, se
ci si addormenta in fondo a quest’estate
che è come una voragine – e seduti sull’orlo
e separati, pur riconoscendosi qualche qualità,
e cacciati nelle nostre parti, ecco,
ci rappresentiamo,
gettiamo alle spalle ombrelloni ridicoli
cancri della pelle vomiti
in lunghi corridoi, noi
che oggi abbiamo quarant’anni.
Le cose, sul fondo, fanno un leggero tonfo.
La mietitura ha sbiadito l’ombra di corpi:
dove, davvero,
nessuno di noi è mai stato.
Così sta:
equinozia.
Il tempo volentieri si sobbarca
a quest’incarco.
Set. 89
*
Se l’acqua fosse un corpo opaco
il cerchio il flutto
la stessa immagine ripiegata
ad organetto.
Nessuno specchio, forse una carta
liquida, un disegno d’onda
a muovere alla sponda ciuffi d’erba…
Né sole né luna.
Scompariresti, tuffandoti?
da “LA RAGIONE DI UN METODO”.
*
C’è, su in alto,
un mattone sconnesso.
Forse opera silenziosa
dei licheni.
Si alza lo sguardo
sulle punte dei piedi,
dal centro del cortile.
Si tiene di vista il cretto,
la crepa sottile negli strati antichi
della Casa.
La muraglia appare eterna.
I piccioni lasciano il passo al passo,
un piede dietro al piede,
fino al muro e ritorno.
*
Dei molti metalli di qui,
delle scodelle i cucchiai corti
l’alluminio rigato preferisco:
non c’è ruggine che s’allarghi
come i licheni bruni e nell’opaca
lucentezza, finito il cibo, non c’è
rischio che ci si specchi
questa faccia scambiata.
E il suono sulle inferriate
è buono e di notte
la freschezza dell’acqua,
rugiada dei silenzi,
nel bacile.
*
Ho disegnato un albero,
una base forte di radici,
rami come cristi, braccia
d’invocazione.
L’ho fatto grattando
il velluto parco dei licheni, fino
all’umido rosso (dei mattoni).
Mi hanno dato materia
sotto l’unghia, tempo
da passare, e il lazzo
degli altri della Casa. Sui rami
non ci sono foglie: è inverno.
*
E’ – la grata – collocazione di oggetti,
osservazione. Nel tempo
lungo del giorno catalogavo.
In alto a destra astute gazze
espropriavano i passeri.
Poi embrici del muro e anche
qualche nuvola dagli orli
sfrangiati rossi.
C’è stata anche un’edera essiccata,
una volta un geco ed era estate,
proprio sopra i licheni.
Più giù nella griglia contorni
di finestre dismesse calcinacci,
un’incerta borragine.
C’erano anche voci nei riquadri
e l’ombra sfocata di passaggi.
da “Sinossi dei licheni”.
poesie di Giacomo Cerrai.