Nella ricorrenza del passaggio di una stella cometa
Ecco il buio spezzacuori
e i trampolieri dei suoi sentimenti
dove un no ancora pende
con una gamba levata
sopra l’amante in silenzio
che ode rompersi
i biscotti ed assentarsi l’istante:
sbriciolato sulla superficie
El così camminava le acque.
Da qualche parte in noi
ho sentito ridere,
gli alberi ambulare sulle punte
con le cime apparecchiate d’uccelli
spalancati nel buio,
dai bisbigli
la notte notte
e frusci e susurri e sospiri,
gli scheletri orribilmente incrinare
per le fattezze di un tempo e
sperare sotto il padre mare:
nell’ora dei sogni veritieri
El premendo e penetrando
s’avvolgeva la testa.
Ecco la bocca piena del loro amore splendente
spunta sulla boscaglia tremolante del mondo,
finito il moto
per un secondo ancora
sbatte e colpisce la luna,
i satelliti s’inceppano
in una vecchia promessa
e insieme voltano ammainati i venti:
il tuo abbraccio la spezza
il tuo cuore è inadatto
la tua lingua incomprensibile,
El per non farla diventare
la sorprendeva.
Da qualche parte in noi
libero è uno spazio da alberi,
dove le cicogne precipitano stecchite
picchiando le carlinghe dei razzi
per far loro perder la testa,
le rotte piangendo s’invertono
passano il deposito
gli hangar in cui rulla e s’appronta Saturno
e non possono prender la Terra,
anzi, senz’erba neppure: sfiorate
le leve segrete
le albe uscivano
ronzando come dischi,
come da una ferita mal riparata
il sonno degli esseri esce in vapore,
ma era la Terra
che le partoriva
ed El col buco nero le divorava,
il finto pescatore assopito e andato di sotto
spezzando la lastra del mare.
Ecco se il gran Sole e se l’Immenso
non fossero
ma fosse soltanto
lo scampanìo delle mani
quando ci si saluta
e il missile puntato, la navicella degli atomi,
i motori che più non ci abbandonano
e vertici linee che incessanti proclamano
d’ossidiana e lapilli la fattura del cielo,
l’altro mare a specchio
d’anemoni e formine, e in
questo nostro scrutiamo
di quello la pomice lunata,
la semplice fosforescenza degli astronauti:
il lento verde e
fluitare dei canali,
limo che mai vide e capì
minacciato dai tonfi
e di tuffi dalle massicciate,
o suono delle parole che non si dissero,
i non visti abitatori
in ascolto del vento che mai spira,
picchettati per i capelli
come Lilliput
dalle alghe e dai molluschi,
desti ai bengala dell’Asino e del Bue
e al mugghio del Bambino contro le stanghe:
da qualche parte in noi,
i marziani immobili osservano
sostare il nuoto innamorato degli sgombri
e un lugubre sole accomiatarsi,
cerimonioso, temperando un legnetto,
coi volti pensosi trascolorano
ai nomi delle fidanzate terrestri,
lontane lontane e
rifiorite per loro nei loro cuori verdi:
El soffiò in un’onda di vetro
una sfera
perché anche quel poco soltanto non fosse.
Bianco
I morti si rivoltano alla morte,
babbo Inverno, nessuno rifiata
la tua controparola d’ordine, ma
l’alfabeto si consolida in grandine in
solida luce,
resta resta resta
solo tra i pattinatori sull’acqua che
molti soli cadono come monete, e
la velocità è un passo falso
in questo stato dell’anno:
il crac dal bosco e il
cane abbaia una sfera di stupore ai
falconi di rientro negli occhi, gli
insetti dormono in gocce d’ambra e
tutti i ripari sono anime, le
erbe gelate nello stomaco del bue
e il salmo della neve
dove amanti si stendono, non
sai più se per spirito o sorriso, hai
messo sonagli alla valanga
e lo stagno brina:
inciso in un dente d’aria,
graffiato dai battenti,
me che inquieto delimita
impianta e coltiva la foresta,
v’inchioda la mappa degli animali,
il cigno prima freddo sul
vassoio poi alto sulla palude e
ora, se ti voltassi, alla deriva sullo
specchio l’orma grossa del respiro trattenuto
o una figura lontanissima
con la capanna ancorata al fianco non
ricordo non ricordo non
ricordo il bisbiglio della notizia buca:
volano a forma di calice,
a lupi di stormi a passeri di branchi
e sibilano bibliche pietre nella corrente
e narrano e non affondano
per affrettarmi ad amare,
ultimo minuto che sfigura,
stridìo in vista, e
pensa disporre un pensiero
infrangere le leggi
entrare le porte
oscuramente.
II cielo della terra
Incominciando
col pane che piange nel laboratorio,
aureolato di ricordi, osservato nel sonno,
cotto in gennaio al fuoco della domanda
nel buio col buio da una tovaglia d’uomini col fulmine
all’attacco della foglia, al cuore dell’annuncio:
soltanto le donne gravide pendono in aprile.
Crediamo:
il mio occhio soffia sul taglio che
le braccia rimandavano al petto, è qualcosa
di più del fiume rincorso dal puma in sogno stanotte
o del cadavere lodato nelle frasche che si spaglia,
frizza contro la pioggia beccheggia tra
gli scogli, la pietra focaia la roccia.
In ultimo
tutte le tenebre pongono la testa all’ombra
di un loro unico piede, gli uomini in separate
doglie salgono scendendo un ponte,
verso una cuccia d’oro e una volontaria catena
di carta, l’orrore dell’amore, la perdita del nome,
e il mare sicuramente comincia e s’apre.
**
Solo i prossimi fiumi e il grano,
domandano i freni alle mucche nelle stalle,
catturate da un filare di vita
traducendo pianto a forza di pugni
in goccioline di notte e in sangue di mosto,
innaffiate da dolore in agguato,
testimoniano che le case aprirono i fianchi
come partorienti frugate da luci impazzite,
regalarono fedeltà.
Gli uomini dentro di loro non vedono,
gli occhi danno occhiali di terra
che sbracciano per prova
in un vagone di lampadine e rimpiangono
la testa dell’amore sotto la rete
del letto che arde in croce disteso.
Solo i prossimi fiumi e il grano,
isolati, nessuno non colpevole,
adatti a mescolarsi, ondeggiano
le gambe di una spia che avverte.
ALESSANDRO CENI ‘OTTO PASSAGGI DA ‘NEL REGNO’ ineditidi del dicembre 1992 anno V n.57 pubblicati su POESIA [Crocetti] –
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Alessandro Ceni è nato nel 1957 a Firenze, dove vive. Ha pubblicato ‘I fiumi d’acqua viva’ [Guanda, Milano 1980], ‘Il viaggio inaudito’ [Tosadori, Riva del Garda 1981], ‘I fiumi’ [Marcos y Marcos 1985 e 1990], ‘La natura delle cose’ [Jaca book, Milano 1991]. E’ presente in numerose antologie e ha tradotto Poe, Coleridge, Milton, Keats, D. Barnes, Emerson e Stevenson. Oltre che poeta è pittore.
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Questo inizio ovunquw.
I
Mentre lenta la sua testa
si volge a guardare il sonno e pensa
le buffate di salvia pestata che ci giungevano
dal fronte della montagna, solitaria come un uccello
marino,
le nuvole
ci rapirono dalla terra,
ci imprigionarono su un impensabile vascello
e ci indussero a credere che tu fossi perduta…
E poi, sottrarsi al luogo in ogni dove,
lo stare ritta, contro di noi, della campagna nei campi
e il permanere del silenzio nel suono delle bestie.
II
Nel suono delle bestie
molti dèi pregano
e molti forti alberi si arrendono alla cenere delle cose
sui cani acciambellati sulla soglia
dove sorgono pini e dai pini taccole,
passere e voci di merle che tentando canti
non danno altro ingresso né a parole né a cose,
perché sul padre discende il figli
e il figlio èun padre e
forse il chiurlo non discende diversamente.
III
Non diversamente discende il chiurlo
negli alvei dei torrenti in secca
scrutando nella memoria
i fili del lentischio alle fauci del Cinquale,
e non diversamente fa la luce
nell’aliante del falco che discende
a incidere querce ed ilici in litor maris.
O è della propria spirituale
l’immobilità e l’affiorare
come reliquie di enterrotte palustri
in una valle salina.
IV
Oh affrascate di tigli
oh forche di alberi avvertite
avete mai sentito la notte il mare farsi di piume,
divenire le nidiate dei pesci a costa
e bracciarla e invadrne le reni
sul pacciume umido e inerte
dell’acquitrino fluviale, dove giacciono
appesantiti di conchiglie
i vimini strappati ai promontori…
oh interni di onde
io sono stato pesce,
io sono andato in spirito tra i miei
simili a loro e in cerchio ma dissimile.
E andavo frangendo il muso barbuto
nella fine sabbia di marzo
e alìavo al traino delle spume
la lunga teoria delle pinne,
non più pesce adesso ma uccello,
benché tolto alle acque non ancora del cielo.
V
Non mancare alla presenza dei convitati,
agli antichi e svaniti amici che giunsero in sogno
insieme alla voce del padre che,
varcata la porta, gli sostò accanto nel letto
come una nave in rada;
e fu come quando la morte gli aveva gettato via tutti i
capelli,
mandibole sparse e la follia
in rostre attorcigliate di legno pallido
su dall’alzaia glabra
dove si pasce il mare delle sue bianche ossa.
Non mancare alla presenza della mente
ossessionata dal fantasma di lei,
perché la donna era lì ma lui no. E in realtà non era
nemmeno lui.
VI
Dove abita il bambino abita Dio.
Il suo deambulare fa la storia; non dirgielo,
semplici parole s’impennano contro di lui
e le sue labbra mettono alcioni in bonaccia
nella selva secca della terrestre salina
che schiocca sotto il suo grave peso di bimbo.
Acqua e sale, patria, nutrice marina
che punti sulla foglia il grano di sale e
l’aspide lingua dell’uria,
inclina nell’aria la casa
e fa che il sio occhio d’infante rapace
divelga di noi l’orto che apportammo per lui,
discenda a svellere i morti sopraccigli,
e che sia glabra la nostra morte.
VII
Sia la nostra morte
al suo occhio teso di passsero
grande di rami e di sviluppi
né mai distolga il passo una volta compiuto.
“Figlio, in queste terre
siamo già stati; e so
che un tempo il silenzio
era il permanere nel suono che
due anziani fratelli e genitore
il luogo che è in ognidove.
Quindi, non siamo andati perché arrivavi tu”.
“Oh padre, oh madre perfettissimi,
andati perché arrivava la somma,
il grande bamboccio di carne,
muto alla primavera, muto al colore dei pesci
e muto alla groppa del mare
a cui non sa dire: “Noi, elemento’ “.
“Figlio, canta , figlio, danza, figlio, resta,
ché sopra la nostra morte è un prato
per l’occhio teso del passero
a una tu cadenza di gioco”.
VIII
A chi lo guardi dalla foce
l’intrico delle cose ghiacciate
è come un ragazzo che annega;
e la schiena dell’uccell[a]
che cede come una carena sotto la mano innocente
forse è perché si andava noi per primi;
forse è perché si era eroi,
extraterresti, angeli ed anime dei morti,
e molto più della natura
e molto più di Dio
si amava indifferentemente
e foce e coste e uccell[a].
Forse dalle parolem per primi, dicemmo
che il vento rinforzava sul mare
e tutto quel sole che ora
parlava sugli altri
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Gentile Giorgio,
grazie per le poesie qui postate. Ho letto altri suoi commenti, che non ho approvato dato il linguaggio usato; ma non capisco, con chi ce l’aveva? Sembrava stesse rispondendo a qualcuno e qui non vedo altri commenti… Grazie. Un caro saluto e serenità.
Antonio Bux