ALESSANDRO CENI – poesie da “Parlare chiuso. Tutte le poesie” (Puntoacapo, 2012)

Nella ricorrenza del passaggio di una stella cometa

Ecco il buio spezzacuori

e i trampolieri dei suoi sentimenti

dove un no ancora pende

con una gamba levata

sopra l’amante in silenzio

che ode rompersi

i biscotti ed assentarsi l’istante:

sbriciolato sulla superficie

El così camminava le acque.

Da qualche parte in noi

ho sentito ridere,

gli alberi ambulare sulle punte

con le cime apparecchiate d’uccelli

spalancati nel buio,

dai bisbigli

la notte notte

e frusci e susurri e sospiri,

gli scheletri orribilmente incrinare

per le fattezze di un tempo e

sperare sotto il padre mare:

nell’ora dei sogni veritieri

El premendo e penetrando

s’avvolgeva la testa.

Ecco la bocca piena del loro amore splendente

spunta sulla boscaglia tremolante del mondo,

finito il moto

per un secondo ancora

sbatte e colpisce la luna,

i satelliti s’inceppano

in una vecchia promessa

e insieme voltano ammainati i venti:

il tuo abbraccio la spezza

il tuo cuore è inadatto

la tua lingua incomprensibile,

El per non farla diventare

la sorprendeva.

Da qualche parte in noi

libero è uno spazio da alberi,

dove le cicogne precipitano stecchite

picchiando le carlinghe dei razzi

per far loro perder la testa,

le rotte piangendo s’invertono

passano il deposito

gli hangar in cui rulla e s’appronta Saturno

e non possono prender la Terra,

anzi, senz’erba neppure: sfiorate

le leve segrete

le albe uscivano

ronzando come dischi,

come da una ferita mal riparata

il sonno degli esseri esce in vapore,

ma era la Terra

che le partoriva

ed El col buco nero le divorava,

il finto pescatore assopito e andato di sotto

spezzando la lastra del mare.

Ecco se il gran Sole e se l’Immenso

non fossero

ma fosse soltanto

lo scampanìo delle mani

quando ci si saluta

e il missile puntato, la navicella degli atomi,

i motori che più non ci abbandonano

e vertici linee che incessanti proclamano

d’ossidiana e lapilli la fattura del cielo,

l’altro mare a specchio

d’anemoni e formine, e in

questo nostro scrutiamo

di quello la pomice lunata,

la semplice fosforescenza degli astronauti:

il lento verde e

fluitare dei canali,

limo che mai vide e capì

minacciato dai tonfi

e di tuffi dalle massicciate,

o suono delle parole che non si dissero,

i non visti abitatori

in ascolto del vento che mai spira,

picchettati per i capelli

come Lilliput

dalle alghe e dai molluschi,

desti ai bengala dell’Asino e del Bue

e al mugghio del Bambino contro le stanghe:

da qualche parte in noi,

i marziani immobili osservano

sostare il nuoto innamorato degli sgombri

e un lugubre sole accomiatarsi,

cerimonioso, temperando un legnetto,

coi volti pensosi trascolorano

ai nomi delle fidanzate terrestri,

lontane lontane e

rifiorite per loro nei loro cuori verdi:

El soffiò in un’onda di vetro

una sfera

perché anche quel poco soltanto non fosse.

Bianco

I morti si rivoltano alla morte,

babbo Inverno, nessuno rifiata

la tua controparola d’ordine, ma

l’alfabeto si consolida in grandine in

solida luce,

resta    resta    resta

solo tra i pattinatori sull’acqua che

molti soli cadono come monete, e

la velocità è un passo falso

in questo stato dell’anno:

il crac dal bosco e il

cane abbaia una sfera di stupore ai

falconi di rientro negli occhi, gli

insetti dormono in gocce d’ambra e

tutti i ripari sono anime, le

erbe gelate nello stomaco del bue

e il salmo della neve

dove amanti si stendono, non

sai più se per spirito o sorriso, hai

messo sonagli alla valanga

e lo stagno brina:

inciso in un dente d’aria,

graffiato dai battenti,

me che inquieto delimita

impianta e coltiva la foresta,

v’inchioda la mappa degli animali,

il cigno prima freddo sul

vassoio poi alto sulla palude e

ora, se ti voltassi, alla deriva sullo

specchio l’orma grossa del respiro trattenuto

o una figura lontanissima

con la capanna ancorata al fianco non

ricordo non ricordo non

ricordo il bisbiglio della notizia buca:

volano a forma di calice,

a lupi di stormi a passeri di branchi

e sibilano bibliche pietre nella corrente

e narrano e non affondano

per affrettarmi ad amare,

ultimo minuto che sfigura,

stridìo in vista, e

pensa disporre un pensiero

infrangere le leggi

entrare le porte

oscuramente.

II cielo della terra

Incominciando

col pane che piange nel laboratorio,

aureolato di ricordi, osservato nel sonno,

cotto in gennaio al fuoco della domanda

nel buio col buio da una tovaglia d’uomini col fulmine

all’attacco della foglia, al cuore dell’annuncio:

soltanto le donne gravide pendono in aprile.

Crediamo:

il mio occhio soffia sul taglio che

le braccia rimandavano al petto, è qualcosa

di più del fiume rincorso dal puma in sogno stanotte

o del cadavere lodato nelle frasche che si spaglia,

frizza contro la pioggia beccheggia tra

gli scogli, la pietra focaia la roccia.

In ultimo

tutte le tenebre pongono la testa all’ombra

di un loro unico piede, gli uomini in separate

doglie salgono scendendo un ponte,

verso una cuccia d’oro e una volontaria catena

di carta, l’orrore dell’amore, la perdita del nome,

e il mare sicuramente comincia e s’apre.

**

Solo i prossimi fiumi e il grano,

domandano i freni alle mucche nelle stalle,

catturate da un filare di vita

traducendo pianto a forza di pugni

in goccioline di notte e in sangue di mosto,

innaffiate da dolore in agguato,

testimoniano che le case aprirono i fianchi

come partorienti frugate da luci impazzite,

regalarono fedeltà.

Gli uomini dentro di loro non vedono,

gli occhi danno occhiali di terra

che sbracciano per prova

in un vagone di lampadine e rimpiangono

la testa dell’amore sotto la rete

del letto che arde in croce disteso.

Solo i prossimi fiumi e il grano,

isolati, nessuno non colpevole,

adatti a mescolarsi, ondeggiano

le gambe di una spia che avverte.

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2 thoughts on “ALESSANDRO CENI – poesie da “Parlare chiuso. Tutte le poesie” (Puntoacapo, 2012)

  1. ALESSANDRO CENI ‘OTTO PASSAGGI DA ‘NEL REGNO’ ineditidi del dicembre 1992 anno V n.57 pubblicati su POESIA [Crocetti] –
    _________________________________________________

    Alessandro Ceni è nato nel 1957 a Firenze, dove vive. Ha pubblicato ‘I fiumi d’acqua viva’ [Guanda, Milano 1980], ‘Il viaggio inaudito’ [Tosadori, Riva del Garda 1981], ‘I fiumi’ [Marcos y Marcos 1985 e 1990], ‘La natura delle cose’ [Jaca book, Milano 1991]. E’ presente in numerose antologie e ha tradotto Poe, Coleridge, Milton, Keats, D. Barnes, Emerson e Stevenson. Oltre che poeta è pittore.
    ______________________________________________________

    Questo inizio ovunquw.

    I

    Mentre lenta la sua testa
    si volge a guardare il sonno e pensa
    le buffate di salvia pestata che ci giungevano
    dal fronte della montagna, solitaria come un uccello
    marino,
    le nuvole
    ci rapirono dalla terra,
    ci imprigionarono su un impensabile vascello
    e ci indussero a credere che tu fossi perduta…
    E poi, sottrarsi al luogo in ogni dove,
    lo stare ritta, contro di noi, della campagna nei campi
    e il permanere del silenzio nel suono delle bestie.

    II

    Nel suono delle bestie
    molti dèi pregano
    e molti forti alberi si arrendono alla cenere delle cose
    sui cani acciambellati sulla soglia
    dove sorgono pini e dai pini taccole,
    passere e voci di merle che tentando canti
    non danno altro ingresso né a parole né a cose,
    perché sul padre discende il figli
    e il figlio èun padre e
    forse il chiurlo non discende diversamente.

    III

    Non diversamente discende il chiurlo
    negli alvei dei torrenti in secca
    scrutando nella memoria
    i fili del lentischio alle fauci del Cinquale,
    e non diversamente fa la luce
    nell’aliante del falco che discende
    a incidere querce ed ilici in litor maris.
    O è della propria spirituale
    l’immobilità e l’affiorare
    come reliquie di enterrotte palustri
    in una valle salina.

    IV

    Oh affrascate di tigli
    oh forche di alberi avvertite
    avete mai sentito la notte il mare farsi di piume,
    divenire le nidiate dei pesci a costa
    e bracciarla e invadrne le reni
    sul pacciume umido e inerte
    dell’acquitrino fluviale, dove giacciono
    appesantiti di conchiglie
    i vimini strappati ai promontori…
    oh interni di onde
    io sono stato pesce,
    io sono andato in spirito tra i miei
    simili a loro e in cerchio ma dissimile.
    E andavo frangendo il muso barbuto
    nella fine sabbia di marzo
    e alìavo al traino delle spume
    la lunga teoria delle pinne,
    non più pesce adesso ma uccello,
    benché tolto alle acque non ancora del cielo.

    V

    Non mancare alla presenza dei convitati,
    agli antichi e svaniti amici che giunsero in sogno
    insieme alla voce del padre che,
    varcata la porta, gli sostò accanto nel letto
    come una nave in rada;
    e fu come quando la morte gli aveva gettato via tutti i
    capelli,
    mandibole sparse e la follia
    in rostre attorcigliate di legno pallido
    su dall’alzaia glabra
    dove si pasce il mare delle sue bianche ossa.
    Non mancare alla presenza della mente
    ossessionata dal fantasma di lei,
    perché la donna era lì ma lui no. E in realtà non era
    nemmeno lui.

    VI

    Dove abita il bambino abita Dio.
    Il suo deambulare fa la storia; non dirgielo,
    semplici parole s’impennano contro di lui
    e le sue labbra mettono alcioni in bonaccia
    nella selva secca della terrestre salina
    che schiocca sotto il suo grave peso di bimbo.
    Acqua e sale, patria, nutrice marina
    che punti sulla foglia il grano di sale e
    l’aspide lingua dell’uria,
    inclina nell’aria la casa
    e fa che il sio occhio d’infante rapace
    divelga di noi l’orto che apportammo per lui,
    discenda a svellere i morti sopraccigli,
    e che sia glabra la nostra morte.

    VII

    Sia la nostra morte
    al suo occhio teso di passsero
    grande di rami e di sviluppi
    né mai distolga il passo una volta compiuto.
    “Figlio, in queste terre
    siamo già stati; e so
    che un tempo il silenzio
    era il permanere nel suono che
    due anziani fratelli e genitore
    il luogo che è in ognidove.
    Quindi, non siamo andati perché arrivavi tu”.
    “Oh padre, oh madre perfettissimi,
    andati perché arrivava la somma,
    il grande bamboccio di carne,
    muto alla primavera, muto al colore dei pesci
    e muto alla groppa del mare
    a cui non sa dire: “Noi, elemento’ “.
    “Figlio, canta , figlio, danza, figlio, resta,
    ché sopra la nostra morte è un prato
    per l’occhio teso del passero
    a una tu cadenza di gioco”.

    VIII

    A chi lo guardi dalla foce
    l’intrico delle cose ghiacciate
    è come un ragazzo che annega;
    e la schiena dell’uccell[a]
    che cede come una carena sotto la mano innocente
    forse è perché si andava noi per primi;
    forse è perché si era eroi,
    extraterresti, angeli ed anime dei morti,
    e molto più della natura
    e molto più di Dio
    si amava indifferentemente
    e foce e coste e uccell[a].
    Forse dalle parolem per primi, dicemmo
    che il vento rinforzava sul mare
    e tutto quel sole che ora
    parlava sugli altri
    __________________________________

  2. Gentile Giorgio,

    grazie per le poesie qui postate. Ho letto altri suoi commenti, che non ho approvato dato il linguaggio usato; ma non capisco, con chi ce l’aveva? Sembrava stesse rispondendo a qualcuno e qui non vedo altri commenti… Grazie. Un caro saluto e serenità.

    Antonio Bux

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