da Diatribe del ventre
I
Dimora negli intestini
la terra franata dei nomi.
Là, dove nessuno sa.
Dove non c’è dove
ogni cosa
è radice d’abisso.
Là fiorì il tuo nome.
II
Era quel nome a conoscerti
nella sua pena in causa,
mentre fuori
la consuetudine interna,
lede
il suo grembo:
lo strattona:
lo cancella.
III
Si ritrae da te | sempre
più si allontana
quel nome
che partecipa –
reitera
– rientra
nelle membra
la matrice del suono
cui detta
semenza.
V
Il capo:
un ventre spaccato. In fondo
quella città: un lungo
delirio. E ancora:
quel capo, quel canto
cui nessuno
appartiene. Tu
soltanto
salmodi
quel salmo.
VI
La materialità discostatasi del grembo
giunge
al verso
(l’isola)
nella sua tenue
trasvolata fulminea
verso l’assenza.
L’essenza
stessa
di sé medesima.
da Lacerti, corpi, lembi.
Brani di nulla.
VII
Talvolta ti atterra il corpo addosso
ed è il cupo gorgoglio di un verbo
mentre si vaga, per ossessioni, per
stordimenti – per storni. Il corpo –
un ceppo – si allontana dallo sguardo
– suo epicentro, suo traguardo – nel candore
stridulo delle cose, ove niente
impedisce la resa, la dipartita, ove la voce
si ascolta una volta sola, mentre tutto
non torna – è molto diverso – ricomincia.
XIV
Esangue traverso strade
(coscienze?)
dirupi sensoriali
caos
volteggi
– e risalgo
il declivio
nel lavacro
del pianto.
XVII
Mente, l’occhio
nella sua cocchia.
Solo empie vuota
sciacqua. E rabbercia il suo cavo,
nulla.
XVIII
Ho sempre guardato, guardato,
dal nulla cui vedo
i corpi della soglia,
laddove sono rimasto
a fissarne
la fissità inquieta
d’un nulla.
XXIV
Il disegno tracciato non ha colore
poiché ogni emblema non ha contorni
ma frammenti – sfumature. Tutto
si ricompone tace scompare.
Il cerchio d’oggi è ancora silenzio.
XXVII
Virano i sensi
fra conati di sangue
fuochi, fischi
di treni.
La paura è ciò che ci lascia –
ciò che resta dei volti.
XXXIII
Anche solo esser ombra su una strada
anche solo esser aria che spira
o foglia, che volteggia e si posa
nello sguardo
che innerva
nella sfera
l’immane
movimento della vita.
da Spettri
XXXIX
Bisogna non dirsi, non
pronunciarsi, esimersi
per riceversi. Eludere
il proprio enunciato, il
proprio interno
dettato – per cospargersi
e congiungersi
occorre disconoscersi.
XLIV
Nel tuo vivere quotidiano
vi è un supplirsi a me estraneo –
un ignoto
contenersi – un vedersi
mai più in là di ciò che si ha
di ciò che si sa – un infinito
ridotto al corpo dell’osso.
XLVIII
Sento il sibilo delle tue preci
madre
che dolce s’insinua –
è bocca che lava
ferita che strenua
concilia
in terra
la terra che continua –
che ancòra invoca
nel sangue delle sillabe
pietà – perdono
l’àncora del peccato.
da Io
LII
Tu fughi ogni inizio –
non permane questa vista,
questa offerta, questa ridda
composta, appena lambita,
intuita, dell’ordine cieco,
deciso, dell’occhio.
LVIX
Tu qual eri allora
di ritorno da bambino
narri l’abbandono
occluso al suo getto –
e tutto trova notte, tutto
(e postuma ogni dolcezza).
LXII
Se mi guardo guardarti
– se mi vedo –
immagine e somiglianza
in te di me
mi plasma su te
la grazia evidente
– l’interiorità latente –
l’improvvido arcano
– tacito – in noi.
poesie di Gabriele Gabbia
da “La terra franata dei nomi” (Ed. L’arcolaio).
chiedo scusa a Gabriele se alcuni testi non rispettano lo schema originale, ma ho provato a riportare fedelmente il tutto, solo che nel momento di pubblicare, ha allineato alcune parti 😦 non sono ancora molto pratico, scusami!!! 🙂
un abbraccio, antonio
molto belle specialmente la 14. sono secche ma pregne. mi vien fatto subito di pensare a cattafi. davvero complimenti
Caro Diego, è vero, pensare a Cattafi leggendo Gabriele, ci può stare davvero. Citi un autore che mi piace parecchio, come il nostro qui caro amico.
ANTRACITE
Fabbriche e treni perdono lucore,
invecchiano, sbiadiscono col tempo,
sconfinano nel bigio della nebbia.
L’antracite perdura, abbasso, nera,
fragile, dura, riflessi di metallo,
terra chiusa e remota
a lumi spenti.
Ne intendo i segni, i cippi calcinati del confine,
l’ala del fossile confitta sulla costa
le mani rattrappite dei compagni
naufraghi morti nel golfo senza mare.
Può darsi avvenga domani un altro rogo
non l’aperta l’allegra combustione
che macchia l’aria di fumo e d’amaranto,
la soffocante perdita dell’anima
noi incastrati nell’ombra.
Penso alla pioggia, alla cenere, al silenzio
che l’uragano lascia amalgamati
nella vergine lapide di melma
dove drappelli d’uomini e di bestie
verranno ancora a imprimere
un transito nel mondo,
all’alba ignari sul nero
cuore del mondo.
da “Mosche del meriggio”
di Bartolo Cattafi
Grazie a te per il prezioso dono, caro Gabriele, e per la tua gentilezza rara.
A presto, buone cose
Antonio