DALLA SEZIONE I
FISICA DEL TEMPO
(LA CICLICITÀ DEL POLINOMIO)
LATO X
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Nell’avvicinarci all’origine ripartiamo
dalla fine riavvolgendo ogni sguardo
ciascun nome e tutti i discorsi pronunciati,
ché rimane poco e molto nel limitarsi a vuoto
finanche le persone care sono specchi
che riflettono altri noi, al di là del vetro.
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[chiuso al nome]
nel chiamarsi e non rispondere
l’essere poco attento ai giorni
all’importanza del quotidiano
nell’assistersi dal di dentro
-per non venirne fuori-
come dal vuoto profondo
della malattia degli anni
che attorno cresce
come un batterio lento
nel cuore d’ogni uomo stanco
d’esser nome che si chiama solo.
LATO Y
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Ricordo appena cosa fosse
la terra ritornando a casa
di notte, a piedi nudi ripetendo
il vuoto della tua futura presenza
quando le orme mi precedevano
e tracciavano sentieri interminabili
stando al passo della mia assenza.
Mi dicevo -è quasi finita- ma poi
arrivava un altro sole a svegliarmi.
E col sole ritornavano le ombre
delle cose rimaneva solo il vuoto
gli oggetti manomessi dai tuoi gesti
-non si trovavano mai al loro posto-
i ricordi, fra la polvere e i nostri nomi.
***
Conoscere il martirio
d’esser niente e tutto:
e rivedere il proprio doppio nell’andare
leggero come la morte di un impiccato
indietro o incontro al proprio malaffare
che ripercorre un vuoto d’ombra sciolta
come un vento che si rigira nella foglia
-foglia che ritorna nell’altezza a disperdersi-
che si è soli nel degradante mistero
di sapere l’oltre andando oltre dentro
nell’amarezza di un sepolcro eretto sul niente
che scompone la luce d’un pregare narcolettico
dove non rimane che pietra nel sangue fermo
e negli sguardi solo quella sentenza distante.
DALLA SEZIONE II
LE GEOMETRIE DEI LUOGHI
(CRONACHE ISOMORFICHE)
LATO X
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È un amaro sole alla quiete lontana
che disegna il vuoto del profilo
-non c’è pace in vita- non c’è
ritorno dalla penombra alla volta
di luce racchiusa all’indietro
nascosta alla propria memoria;
anche il nero è sbiadito fuori
dalla geometria delle tenebre
dove l’addio di ciascun moto
è silenzio nell’andare nell’oblio
come il foglio carcere invisibile
di un esilio senza condanna.
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Fotogrammi su tutti
gli angoli della casa.
Muri colorati d’epoche,
storie cucite alle tende.
Nomi riscritti a memoria
sulla carta da parati del tempo.
Una casa non è quattro mura
ma solo riciclo, tepore umano.
Una casa è clausura
di vita, sepoltura
dell’antico arcano, fossile
del milite urbano.
LATO Y
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Di me stesso rappresento
la comparsa, nella stanza
vuotata da un presente fermo
su quel me che ho appeso ai muri.
Tutto è nuovo da troppo tempo
nuovi i nomi, e la casa che trasmette
ricordi attraverso i colori (e tu non dici
più niente di quel fratello fatto a pezzi).
Siamo calce che si mischia all’acqua ragia
di un’esistenza solo in parte ricoperta
dal bianco del mondo che più non scolora
il nero della scrittura, nel grigio di sottofondo.
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Mai diventiamo troppo bambini
se non nella pausa pranzo
quando ci tiriamo addosso
tutti i resti del risotto, e ridiamo
senza coltelli tra i denti; cosi
freddamente torniamo poi
a cucinarci il cuore, tra un caffè
e un malumore, senza zucchero
in tutta la fretta di tornare a lavorare.
DALLA SEZIONE III
DALL’INFLESSIONE ALL’INCLUSIONE
(DISTANZA DAL SOGGETTO)
LATO X
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Non si cerca l’oscurità nello scrivere
ché l’autore non esiste né il suo intento
ma l’esito è altro che una luce schiusa
da qualcosa che ci visita deformando
il sublime specchio della voce invocare
la fatica oscura delle nude pagine quando
la mente annullata dal rappresentarsi s’apre
e solo sa delle cose quella superficie fragile.
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Li si vede crescere attorno
i giganti nel vuoto d’ombra
lenti riflessi di una già remota
indicazione di un non essere
più lunghi del tempo indietro
da un opposto angolo di cielo
-argini di una proiezione d’aria-
che costringe il sogno al vero
mentre l’essere riforma il corpo
dall’invisibile sostanza del pensiero.
LATO Y
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Oltre il vetro non vedo più il corpo
come la mano sparita nel riflesso
dell’abisso che proporziona una forma,
così anche gli occhi svuotati rompono
nello sguardo che divide materia e nulla
mentre congiunge lo spazio nell’intuizione
l’armonia d’una sagoma volta al vuoto
nel taglio netto che unisce buio e luce.
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Come si perde tutto nell’anonimo
disperato disincanto dell’amorfo
nauseabondo vischio di parole,
che tutto si consuma vagabondo
in celeste putrido consenso d’ali
rotte nel volo maestro dell’aquila;
e anche l’entusiasmo di un pantano
si sente gorgogliare nell’imbrattato
momento dell’edificazione comune,
e tu che chiami distanza la tua vita
il viale fresco sulle case morte a noi
come immagine corrosa che circonda:
questo specchio inondato di speranze
quanto il gelo più s’accende di stupore
e la città sobbalza ancora un momento
vibrando in una piaga lontana di confine
da ogni spazio che non ritorna mai il segno
come da ogni limite una fossa nel giudizio.
poesie di Antonio Bux
da “La simmetria dei nomi”.
Tutti i diritti riservati.
Immagine di Laurent Fiévre.
Tutti i diritti riservati.