DAL CAPITOLO I
“ANATOMIA URBANA”
UN OPERAIO
La decima ora del sesto giorno del nono mese
la passi come sempre, attivando il maledetto arnese:
ogni mattina prendi/asciuga/imbusta/infila e poi ancora
torna a casa/raccomanda i figli/bacia la moglie/e corri in chiesa
la domenica assonnato in coda ad aspettare l’estrema unzione:
quarant’anni d’uomo, venti di fabbrica, tre figli e ad ogni busta paga c’è
il mutuo da pagare e il sabato la Coop e venerdì il parrucchiere;
mille euro di spese per fabbricare cessi , dove siederanno poi quei culi
ora lì con te a pregare genuflessi -tutti santi- coi portafogli più grassi
che te ne torni così basso a casa, nel profilo silenzioso di tua moglie
che t’accoltella, e coi bambini che hanno fame e tu a spiegargli
che si mangia una volta sola al giorno -altrimenti si va in galera-
e di nuovo ancora domani pronto, a rigettarti su quella piattaforma:
tu -meccanismo perfetto- nell’imperfezione della vita.
ALLENAMENTI
Era tra i folti boschi
di quegli orribili banchi
-custodi della nostra noia-
che noi giocavamo
a fare un pallone
con cartaccia piena
di mezza equazione
e due penne a sostenere
la mano portiere,
uno contro uno
rete dopo rete
mentre il professore
di quella nostra partita
ci ammoniva
mettendoci alla porta,
quasi fosse lui arbitro
della nostra vita,
e noi i giocatori
stanchi e provati
come vittime di crampi
dall’allenatore sostituiti,
e accolti nei cessi
da fischi e da applausi sommersi
del nostro pubblico bambino,
tutti già schiavi
di uno stesso segnato destino.
DAL CAPITOLO II
“TIMELESS”
CHIAROSCURO
Immagino il martirio del ricordo
nell’infrangere del peccato di un momento,
di un ciclico pensiero che recide il presente
nell’uomo che mente, nell’anima che da sempre
conserva l’antico esilio di ogni sguardo
dentro stracci di verità raggomitolate,
incartate tra le infinite pieghe dei secoli,
nel riciclato silenzio che non preserva
neanche l’attesa di una nuova speranza
che sveli una memoria mai più vana
di una fine senza pretesa.
RESTI D’ALTRO OLTRE
Della chiusa fronte s’immagina
una mente cresciuta retrocedere
dal mondo che è universo nel dare
suono a quel vuoto che tutto sente,
ma manca l’uomo all’uomo, l’irreale
spazio non dato a vedere per essere
punto di non ritorno oltre cammino
passo nel passo d’eterno destinarsi.
Dove tutto si ascolta tacendo
-anche l’acqua cantare la notte-
nel mare ospitando le ultime stelle
e sabbia germogliare dall’onda
come fermo il mondo scorrendo
trasparente nel vuoto del respiro;
e siamo invisibile richiesta sapendo,
dimenticando d’essere anche un rivelare
silenzioso terreno dell’inascoltato
inumana domanda nel rivolgerci parole:
“dì noi ancora, precipizio del tempo
del mietere ricordi utili a dimenticare
il miracolo del mondo e le redini
dei cavalli d’una mente universale,
e lascia vita uccidere i suoi uomini
e parole scorrere invano dagli occhi”;
ché vanno nell’andare deserto
pensieri bagnati di fonte
straniera nello scorrere
a valle del delta pensiero,
e parole splendenti di sale
cristallizzando un muto mistero.
DAL CAPITOLO III
“MALENERA”
S
È per te che son diventato sordo
ascoltando troppi silenzi per lungo tempo,
come per te che la mia vista è ormai fuggita
per altri occhi più duraturi all’orizzonte,
che il mio sguardo è il tuo cieco vedere
e la mia lingua attorcigliatasi il dolore
al suono vuoto presente del tuo dire;
e muto parlo il linguaggio del nostro errore
nato morto fra i rimorsi che ci trascinano
per le guerre perse e la pace mai avvenuta
di cui io mi ammalo ogni volta che ti penso
e in me diventi l’eterna ombra di mistero
di un amore fatto a pezzi dall’amore.
DELL’ANTROPOFAGIA E D’ALTRI SCEMPI
Ho pranzato con te, ieri l’altro:
v’erano i tuoi resti, capelli confusi
tra le mani, un cuore avvizzito
sfiancato, giaceva tra gli avanzi
dei tuoi occhi tremanti; e le pupille celesti
così fragili, come le gambe sottili allungatesi
sull’infinito tavolo di una notte,
coi piedi contratti nel movimento
a indicar l’impossibile fuga
nel durante di una lunga attesa,
che ti fa simulacro di mia fame
nel nutrire avulso da ogni ragione
morso dopo morso, mai di te
mai sazio mai.
DAL CAPITOLO V
“A MINIMAL SOUL”
BUIOLUCE
Si muore
di un sonno, che è
quel non esserci,
nell’abituarsi alla morte
ad ogni voltura notturna
quando non c’è sogno
in vita, ma sonnolenza
-ché gli occhi marciscono-
nel cercare una luce.
LA GRAVITÀ DI NOVEMBRE
Scorre in silenzio
la vita sotto
le foglie del pensiero
ammucchiate, in disparte
bruciate dalla muta stagionale
-sperdute-
dalla ragione degli anni.
DAL CAPITOLO V
“LA RADICEMENTIFICAZIONE”
INTIMISTO
Come mai il sole.
Perché l’acqua, e le montagne
bianche, e i prati in fiore.
O forse anche il chissà
di un desiderio.
Questo mare che filtra
nel porto, i pesci volanti.
Come mai qui non c’è fine
né un accenno di passato. Soltanto
le catene, la prigione di un perché;
nel purgatorio del sostare negli altri
-sentirli svanire sostando sul niente-
fa l’anima vasto giardino.
LA RADICEMENTIFICAZIONE
Si può vedere nella notte
come il fiume si contorce
e sfuria tra le rapide correnti
del mondano oltre le dighe
d’occidente tra i bastioni
inquinati al rispecchiare
del riflesso basso, il livello
come un’onda lo sconforto
marino che gorgoglia
il mero volto delle alghe;
e si sente anche i giunchi
adirarsi tra le turbini fredde,
nei vortici dell’umano disperdere
di quei molteplici scarichi:
riemergono da quelli
tutti i mali dei fondali,
quel risciacquo senza
schiuma o compassione
che l’asciutta baia di città
più non deterge.
DAL CAPITOLO VI
“NEL METAVERSO (sintomi di agrafia)”
GIARDINI D’INCHIOSTRO
Poiché tutto è labirinto
scrivendo di schiena,
s’apre al silenzio
l’essere sentiero dell’altro
nell’attraversare
giardini d’inchiostro;
e non serve parlare
all’ombra per oltrepassare
voci a specchio, quando
nel gorgo di parole
riemergono solo i punti.
PROVE DALL’OLTREFORSE
Perché finirà, quel poi
incerto destino del quando,
l’ignaro interprete dell’ora
che chissà come improvvisamente
durante niente
finiremo tutti alla deriva
d’un vento come un mai
schiantato sulla fronte,
e per quanto saremo ancora
parto di una domanda
-un qualunque che-
apostrofo del non presente,
soprattutto vivremo nell’assente
o andremo altrimenti
come se nulla fosse,
e troveremo risposte
da quel silenzio che nasce
come un pensiero strozzato
che abusato fuoriesce,
per una lacrima spremuta invano
da un’ipotesi dell’oltre forse.
poesie di Antonio bux
da “Disgrafie”
Immagine di Eric Lacombe.
Tutti i diritti riservati.
questo libro è
di prossima pubblicazione presso la casa editrice Oédipus di Salerno.
Disgrafie (poesie scelte 2000-2005 e altre poesie)
con illustrazioni di Lucia Leone
e note critiche di Ianus Pravo e Federico Federici.